L’età della romanizzazione
Area di popolamento e di scambi commerciali e culturali fin dalle epoche più remote, il territorio dei Colli Euganei fu oggetto di particolare attenzione dei Romani dal II secolo a.C. Da quest’epoca iniziò il processo noto come “romanizzazione”, che consiste nella ricezione e rielaborazione da parte della cultura locale degli spunti culturali romani, anche per il tramite di una progressiva riorganizzazione amministrativa dei territori sottoposti al controllo romano.
L’età tardo-repubblicana (II – I secolo a.C.)
Proprio questa ricchezza determinò nel 141 a.C. l’intervento di un esponente del potere centrale di Roma, Lucio Cecilio Metello Calvo, inviato per definire un contenzioso in atto tra Atestini e Patavini su problemi di carattere confinario. Il proconsole stabilì una linea di demarcazione, che attraversava in senso longitudinale il complesso collinare euganeo e che fu segnalata sul terreno mediante il posizionamento di cippi iscritti: i tre rinvenuti a Teolo, sul Monte Venda e a Galzignano individuano una linea che viene a coincidere con quella dello spartiacque e che quindi crea una precisa ripartizione dei versanti collinari tra le due città, con la conseguente attribuzione a ciascuna di un preciso settore del territorio e delle sue risorse, principalmente pietra e acqua. In entrambi i versanti infatti erano presenti numerose sorgenti, sistematicamente utilizzate per gli acquedotti cittadini, come attestano imponenti resti di impianti di captazione e conduzione delle acque, ma anche cave della pregiata trachite euganea, di cui rimangono evidenti tracce di sfruttamento da parte dei Romani, che la esportavano anche nelle regioni limitrofe. Completavano un paesaggio ricco di risorse anche la copertura boschiva delle aree collinari, che riforniva buon legname, e l’intensa coltivazione dei settori planiziali e vallivi. A ciò si aggiungeva certamente anche la pastorizia, che utilizzava il comprensorio euganeo come tappa fondamentale nelle vie di transumanza che collegavano l’area prealpina ed alpina con le coste adriatiche. Al versante patavino risultò assegnata anche un’altra pregiatissima risorsa, le cui potenzialità economiche, oltre che salutifere e curative, erano emerse soprattutto in area campana proprio nel corso del II secolo a.C.: l’acqua termale.
Il Buso della Casara, i Colli Euganei: la copertura boschiva e la pastorizia
L’età primo-imperiale (fine I a.C. – II secolo d.C.)
L’insediamento delle “aquae patavinae”, così chiamate da Plinio il Vecchio per la loro appartenenza al municipio patavino, si sviluppò rapidamente come rinomata “stazione di cura e soggiorno”, pur mantenendo intatto il legame religioso con l’antico dio dei Veneti, ora probabilmente identificato con “Aponus”. Rapidamente il paesaggio cambiò volto; le numerose sorgenti vennero sistematicamente sfruttate con una serie di impianti, che sorsero verosimilmente senza un ordine preciso, seguendo un semplice ma funzionale modello, con ciascuna fonte direttamente collegata ad una o più vasche mediante cunicoli e tubature, mentre intorno si aggregarono strutture per l’accoglienza e il tempo libero. Non mancavano i luoghi di culto, probabilmente anche semplici sacelli ricavati presso le sorgenti: qui la ritualità dei privati continuò a manifestarsi secondo le tradizioni locali. A Montegrotto, in particolare tra I e II secolo d.C., il territorio acquistò un aspetto sempre più residenziale, quasi un sobborgo termale di “Patavium”, dove la stessa famiglia imperiale con ogni probabilità aveva diretti interessi economici.
Reperti di epoca romana
L’età medio-imperiale (III secolo d.C.) e tardo-antica (IV – VI secolo d.C.)
In molte fonti letterarie antiche si trovano riferimenti al paesaggio; la semplice citazione di “Euganeos lacus” presente in Marziale, diviene una vivace descrizione del territorio ricco di acque ardenti fatta nel IV secolo d.C. da Claudiano, autore di un poemetto interamente dedicato ad “Aponus”. È un’acqua polivalente quella presente nelle parole di Claudiano, che ben sintetizza le diverse caratteristiche che la rendono un bene alla portata di tutti: «pubblica tregua dei mali, aiuto comune dei medici, divinità sempre presente, salute non comperata».
Nella descrizione dell’autore tardo-antico si legge chiaramente la volontà di definire un’immagine quasi selvaggia del luogo, sottolineata dalla presenza fumante dell’acqua che scavava percorsi tortuosi nella roccia e si raccoglieva in bacini lacustri, ma è anche evidente che là dove si conservavano gli antichi “doni di re”, ricordo di un paesaggio e di una sacralità quasi primordiale, doveva esistere in passato un luogo sacro, che certamente all’epoca di Claudiano aveva perduto la sua funzionalità, ma non la sua visibilità.